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SALVARE IL "MARACUOCCIO"

Aggiornamento: 29 gen 2018

11 Luglio 2017

Un progetto culinario per salvare un prodotto in via d'estinzione, ritornando nella terra natia. È questa la scelta del giovane chef Davide Mea.


La sua è una cucina antica, rivisitata con occhi e mani moderne, per recuperare prodotti e sapori del patrimonio gastronomico cilentano. A partire dal "maracuoccio", e da un piatto quasi sconosciuto ai più: la maracucciata.

La maracucciata è una sorta di polenta ottenuta cuocendo una farina per metà composta da maracuoccio e per l'altra da grano, ceci, farro, favino e cicerchie. Davide ha appena trentaquattro anni, è nato nel borgo di Marina di Camerota. Dopo la laurea alla Partenope di Napoli, decide di prendere il volo. E diventa chef lavorando in uno dei migliori ristoranti londinesi.

Ma la sua "maestra" è stata Giovanna Voria, ambasciatrice della Dieta Mediterranea nel mondo, che ha letteralmente salvato i ceci di Cicerale dall'oblio. E l'allievo raccoglie l'insegnamento: la cucina è uno strumento per tutelare alimenti che raccontano storie, portano cultura e tradizione sulla tavola.

E al palato. Il maracuoccio è un antico legume, simile a un pisello ma dalla forma squadrata che si coltiva manualmente senza uso di fertilizzanti, diserbanti o altri prodotti chimici di sintesi. Il suo colore può variare dal verde scuro al marroncino, al rossastro, spesso screziato o marmorizzato.

Il gusto di base è un po’ amarognolo. Si coltiva da secoli a Lentiscosa, una frazione collinare del comune di Camerota, nella parte meridionale del Parco Nazionale del Cilento.

Oggi, in Campania, sono rimasti solo in sei a coltivare questo raro legume, con una superficie totale che sfiora a malapena i tre ettari, offrendo ogni anno pochi quintali di prodotto. Non a caso, è l'ultimo presidio SlowFood.

Il progetto gastronomico di Davide prevede anche tanto pesce fresco, quello proveniente solo dal mare cilentano. Anzi, la sua storia inizia dal mare, che si riversa negli arredi della Taverna: remi, ancora, oblò non mancano. La sua è una cucina sincera, eseguita alla perfezione e con qualche trucco importato dall’alta cucina, ma solo perché sia più digeribile senza perderne i sapori. Si accompagnano le pietanze con una minuziosa selezione di vini internazionali scelti da Antonio Stanzione di "Vini buoni d'Italia".La carta dei vini colpisce già dalla prefazione: "Ognuno beve il vino che merita". Inoltre, attraverso il suo progetto, Davide è riuscito a dare lavoro ad altri ragazzi, la più giovane si chiama Stefania. "L'ho chiamato La Taverna del Mozzo perché il mozzo, appunto, ha il ruolo di svolgere i lavori più umili".

[fonte www.napoli.repubblica .it]




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